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Fabrizio Salvini

Tratta di argomenti che conosci. Se non sai molto riguardo a un argomento specifico, che potrebbe interessare ai tuoi lettori, invita un esperto che scriva al riguardo.

Nel borgo di Boccadasse, dove sono nato e cresciuto, ho avuto la fortuna di ascoltare le canzoni dei Trilli, accennate dai nonni e da papà, pescatori e portuali, mentre cucivano i “tremaggi” o ridevano e urlavano di Genoa e Sampdoria.

Ed io, quelle canzoni, le ripetevo mentre in sella alla bici facevo lo slalom intorno ai turisti ed ai Genovesi che venivano lì per mangiare “il gelato buono”, la domenica pomeriggio.

La mia mamma un giorno portò a casa una audiocassetta intitolata “Tra un gotto e l’atro”. Rivelazione.

Le risate in famiglia, la nonna che tappava le orecchie ai bambini affinché non sentissero

le “rime” di Pippo e Pucci, mio nonno che rideva in silenzio facendo traballare il pancione e noi bambini che aspettavamo di uscire in strada, in mezzo agli altri ragazzini, per poter ripetere impunemente, lontani dalle orecchie dei grandi, le “parole del gatto” che avevamo sentito intonare.

Vent’anni dopo, la musica suonata. Il tornado di passione, la vita dei fumosi locali notturni, le sbornie di note e parole che riempivano le mie serate di post-adolescente ribelle.

Ed un incontro. Giuseppe Zullo, Pippo dei Trilli che, insieme al suo manager dell’epoca, mi avvicina: “Belin che bravo, ti va di venire a suonare con me?”

E poi i palchi e le luci, i paesi e le piazze, i concerti fra vino e cibo. Le lacrime del pubblico, indelebili, mentre suonavamo capolavori dialettali, i rientri a casa colmi di stanchezza ma con le ganasce indolenzite dalle risate e gli orecchi ancora pieni di quegli

applausi a cui non ero abituato.

Poi ci fu la maledetta malattia di Pippo. Una perdita enorme, che arrivava poco dopo un periodo di nostra frequentazione molto intensa, periodo nel quale io per un motivo e lui

per un altro, eravamo accomunati da quelle “messe alla prova” che la vita a volte ti impone e che quella volta ci aveva appioppato contemporaneamente.

Una perdita enorme nel ricordo vivo, appena vissuto, nel sapore ancora agre del salino misto al vino bianco, che si mischiavano in gola durante le nostre serate nel suo ristorante sulla barca.


Passerà ben più di un lustro da quella tragedia prima che io mi ritrovassi la forza per “suonare in genovese”. E questo accade grazie a Vladi, il figlio di Pippo, che di Pippo e Pucci porta avanti storia e tradizione.

“Belin che bravo, ti va di venire a suonare con  me?”

La risposta in un attimo, in un abbraccio di vecchi amici.

Sono sicuro che Vladi sul palco non se ne accorge, perché suonando la batteria mi trovo sempre alle sue spalle, ma in alcuni momenti, suonando, mi ritrovo bambino a fare lo slalom con la bici fra i “foresti” che mangiano il gelato a Boccadasse, sorridendo per le “parole del gatto” che ancora mi pare di non poter cantare impunemente.

E per questa grande ricchezza, incredibilmente, non si riesce mai ad aver sufficiente gratitudine.


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